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Titel
I miti svizzeri. Realtà e retroscena


Autor(en)
Thomas, Maissen
Erschienen
Locarno 2017: Dadò
Anzahl Seiten
288 S.
von
Marco Marcacci

I “miti svizzeri”, ossia quegli eventi, epoche o peculiarità della storia elvetica ritenuti ineludibili per l’identità, continuano ad occupare storici, intellettuali e pubblicisti, talvolta con intenti molto critici se non di denuncia esplicita delle mistificazioni alle quali si prester ebbero. Non tutti concordano sull’utilità di insistere sull’argomento, che andrebbe a tutto vantaggio di chi a tali miti si richiama acriticamente con finalità ideologiche (si veda per esempio il contributo di Sandro Guzzi-Heeb in AST n. 164). Non la pensa così Thomas Maissen, autore nel 2015 di una Heldengeschichte der Schweiz, tradotta in italiano nel 2018 con il titolo appunto di Miti svizzeri. Se Maissen si mostra critico verso l’uso pubblico di tali miti da parte della destra populista e nazionalista, evita nel contempo i toni dissacranti e dileggianti usati in passato da buona parte della storiografia progressista quando si riferiva alle leggende di fondazione della Confederazione, al Sonderfall o al ridotto alpino. L’autore afferma sin dalle pagine introduttive la necessità di un confronto con i miti tradizionali e di una chiarificazione storiograficamente fondata in merito ai loro reali retroscena. Tuttavia rifugge dal discorso ormai inflazionato sul “mito” e sul suo “smascheramento” (p. 21), che presuppone una comprensione riduttiva e peggiorativa del concetto stesso di mito, inteso appunto come rappresentazione sopravvissuta, falsa e acritica, destinata ad essere superata.

L’autore evita quindi abilmente e consapevolmente le due insidie insite nei dibattiti sui “miti storici”: da un lato, l’intento dissacrante nel quale hanno finito per impantanarsi molti intellettuali di sinistra, dagli anni Sessanta in poi; dall’altro, la decostruzione intellettuale del mito mediante un approccio discorsivo mutuato dallo strutturalismo.

I miti – argomenta Maissen – dicono molto, non certo dell’epoca della quale raccontano, bensì del tempo in cui sono stati raccontati; inoltre, nella loro forma di racconti, interpretano l’autoconsapevolezza storica di una comunità politica e in questo senso appaiono insostituibili. L’idea stessa che si possa vivere senza immagini, racconti e segni mitici è un’illusione che si basa su un concetto di scienza a sua volta mitico, aggiunge l’autore citando lo scrittore e pubblicista Peter von Matt (p. 22). Ma lo studioso di storia di formazione accademica, ammonisce Maissen invitando a professare una certa modestia, è solo un protagonista tra tanti nel processo di fondazione del senso collettivo, dovendo condividere la scena con svariate categorie di attori: maestri di scuola, politici e giornalisti, testimoni o presunti tali, ecc.; persino giudici che sentenziano sulla negazione di crimini contro i diritti umani (p. 23).

Allo storico spetta spesso il compito (ingrato) di contrapporsi alla fondazione di un’identità e di un senso collettivo, cioè di confutare un patrimonio culturale intriso di reminiscenze “mitiche” capace di tracciare un ponte con il passato e perciò in grado di trasmettere una sorta di autocomprensione collettiva. Maissen compie lo sforzo di confrontare i racconti mitici e le visioni eroiche della storia patria, compresi i suoi usi non proprio disinteressati da parte delle forze politiche nazional-conservatrici, con lo stato della ricerca scientifica e con le fonti documentarie. Compito dello storico di mestiere diventa quindi il continuo aggiustamento tra le verità attinte dallo studio delle fonti e la validità atemporale dei miti e della loro plausibilità storica.

Un lungo capitolo è dedicato agli orientamenti di fondo della storiografia riguardante la Svizzera (pp. 31-71): percorre sette secoli di produzione storiografica, dalle cronache di due monaci poco noti del xiv secolo (Johannes von Viktring e Johannes von Winterthur) al Dizionario storico della Svizzera. Troviamo poi i 15 capitoli riguardanti altrettante narrazioni mitiche relative alla Confederazione svizzera. Senza sorprese, si inizia con il patto del 1291 e si finisce con il Sonderfall elvetico, passando da temi ed eventi abbastanza noti: Tell, i balivi austriaci, l’assenza di conflittualità interna, Marignano, l’indipendenza nazionale, il popolo in armi, l’occupazione francese, l’occultamento della svolta rivoluzionaria del 1848, la nazione fondata sulla libertà, la democrazia diretta, la tradizione umanitaria, il ridotto nazionale, la difesa della libertà insidiata dall’estero. Ogni capitolo è introdotto da una citazione al riguardo di Christoph Blocher o Ueli Maurer, figure di spicco dello schieramento nazional-conservatore, che ripropone qualche luogo comune sul passato svizzero, che l’autore confronta pacatamente con i risultati della ricerca storiografica. Non conviene addentrarci oltre in queste considerazioni: l’autore si limita a riportare fatti, circostanze e interpretazioni ben note e alla portata di chiunque voglia documentarsi in modo serio. L’approccio vuole essere divulgativo – Maissen confessa di aver scritto il libro prima di tutto per i propri figli – e l’opera è effettivamente accessibile a lettori con una buona cultura generale in fatto di storia svizzera.

Conviene invece spendere qualche parola sulle considerazioni conclusive dell’autore. Ritornando sul modo di analizzare i racconti mitici e I luoghi comuni assurti a fondamento dell’affinità nazionale e sulla necessità di confrontare simili narrazioni con i dati della ricerca storica, Maissen costata un forte e preoccupante scollamento, addirittura una situazione conflittuale, tra le visioni storiche popolari e la ricerca accademica (p. 234). I due interlocutori sembrano ignorarsi: «gli specialisti… non avvertono più alcun stimolo scientifico nel contrastare idee e rappresentazioni confutate e smentite già da tempo; e un pubblico ampio non prova interesse per i risultati di una serie di studi che cercano interlocutori in un confronto erudito e internazionale e si servono non solo di concetti e ragionamenti che coerentemente implicano conoscenze preliminari, ma anche di una prosa spesso asettica» (p. 235). Nella misura in cui l’affermazione è vera non crediamo si tratti di un altro Sonderfall elvetico.

La storia dovrebbe invece avere il ruolo, piccolo ma importante, afferma Maissen, di «istanza in grado di dire dove le asserzioni riguardo al passato diventano discutibili, nel momento in cui le si confronta con le fonti» (p. 237). Che è poi ciò che l’autore ha voluto fare con quest’opera, sviscerando i miti con i quali gli ideologi conservatori costruiscono un quadro del passato lontano dalla realtà documentata, per stilare addirittura un decalogo per il presente e per l’avvenire. Lo storico non può però stabilire come dovrà configurarsi il passato collettivo: come veggenti e astrologi non sono in grado di prevedere il futuro, gli storici professionisti non possono indovinare il passato che farà. In generale, hanno almeno l’onestà di riconoscerlo.

Zitierweise:
Marcacci, Marco: Rezension zu: Thomas, Maissen: I miti svizzeri. Realtà e retroscena, Locarno 2017. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2019, Vol. 165, pagine 148-149.

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Zuerst veröffentlicht in

Archivio Storico Ticinese, 2019, Vol. 165, pagine 148-149.

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